Intervento a Santa Fede, Cavagnolo

Nel volgere di questa giornata non spetta a me trarre conclusioni, che saranno a cura del nostro presidente Roberto Bechis. Mi pare tuttavia utile annodare alcuni fili e prendere anche spunto dagli interventi di oggi.

Una prima osservazione riguarda proprio la presenza del romanico nei nostri territorio: la somma dei siti e degli eventi, coinvolti e programmati – nel mese a venire – è di parecchie decine, per un totale prossimo ai cento.
Inoltre, tutto il Piemonte è coinvolto; va dato merito alla Regione ed al Settore, volto alla promozione turistica per avere, appunto, promosso la conoscenza, per il grande pubblico, di un patrimonio vastissimo, facendolo – come dire – riemergere.
Naturalmente, non dico che gli storici e le persone di cultura ignorassero la presenza del romanico nel nord-ovest, da Pavia, a Casale Monferrato, alla Sacra di San Michele e in molti altri luoghi, ma tale conoscenza oggi non è sufficientemente diffusa e non si estende ancora a quanti – genericamente – chiamiamo i turisti.
Abbiamo dati numerici, assai significativi, che riguardano soprattutto le presenze a Vezzolano. Paolo Aiassa, vice presidente dell’Associazione In Collina, ne ha parlato approfonditamente. Nondimeno, nell’odierno sentire collettivo, la parola “Piemonte” non si associa al romanico ma, essenzialmente, al barocco. Non neghiamo le eccellenze del barocco torinese e piemontese, ma crediamo che si tratti – come dire – di un dato da ricondurre al sostrato culturale dei passati decenni, al sedimento di secoli di storia dell’arte e di storia locale.
Se riflettiamo sul lavoro dei più importanti storici e dei maggiori genealogisti del nostro territorio, da Luigi Librario a Gaudenzio Claretta, crediamo di poter osservare che, per quegli studiosi, l’orizzonte era essenzialmente “sabaudiese” e soprattutto del ducato di Savoia e del regno di Sardegna. Ora, se è pur vero che l’affermarsi del romanico in Europa, e in Italia, coincide cronologicamente con il sorgere della dinastia e con il suo capostipite Umberto Biancamano, i conti di Savoia costituirono per secoli un casato sostanzialmente alpino e transalpino. L’interesse degli storici della dinastia, ancora per tutto l’800, si incentrava però essenzialmente sulle vicende più recenti, nel tempi che videro i conti Savoia, divenuti duchi di Savoia, affermare la loro presenza non solo a cavallo delle Alpi, ma sulla pianura piemontese.
A partire dalla fine del ‘500, si deve proprio al mecenatismo della dinastia l’affermarsi del barocco in Piemonte: palazzi, chiese e residenze sono appunto manifestazione del potere dei sovrani.
Juvarra, Guarini, Vittone e molti altri, non solo creano il nuovo, per i duchi di Savoia e per i re di Sardegna, ma sommergono con i loro progetti molto di quanto, a tutti, appare remoto, medievale.
Si salvano, quando si salvano, poche torri campanarie, da quella di Sant’Andrea di Torino, che tutti oggi conoscono come Santuario della Consolata, con il suo possente campanile romanico, a Fruttuaria e pochi altri ancora. Proprio nell’800, ci sono casi anche più clamorosi di “sommersione”: da parte di Alessandro Antonelli viene demolita la cattedrale romanica di Novara, per far posto all’odierno San Gaudenzio. Alla stessa stregua, l’Abbazia della Novalesa, forse la più antica al di qua delle Alpi, viene soppressa nel 1851, e Novalesa fa il pari con Vezzolano, avvocato al Demanio dello Stato. Va detto che questi remoti monumenti si salvarono, quando si salvarono, proprio perché remoti.
Certo, la cornice nella quale si iscrivono Vezzolano, Santa Fede, San Secondo di Cortazzone, San Nazario di Montechiaro, San Giorgio di Bagnasco e San Dionigi di Montafia e pochi altri, costituiscono un unicum che, pur periferico, mostra evidenti collegamenti alla cultura europea e transalpina, proprio negli anni – cruciali per il romanico – a cavallo tra l’XI ed il XII secolo.
Di questa apparente contraddizione si fanno carico gli studiosi di Transromanica, istituzione benemerita che intende appunto collegare e studiare le migliaia di edifici religiosi che costellano l’Europa, dalla penisola Iberica, ai Paesi nordici, fino all’Italia ed ai Balcani. Transromanica deve continuare vivere, a trovare ospitalità e, come dire, ”tappa” anche presso di noi.
Gli specialisti continueranno a indagare le varianti delle diverse architetture romaniche e le tecniche edilizie, con i problemi che affliggevano i costruttori mille anni fa, e le soluzioni che furono escogitate, per esempio per garantire una migliore illuminazione delle navate centrali delle chiese, elemento essenziale per la liturgia.
La bifora ottocentesca, sulla facciata di santa Fede, risponde a questa esigenza di illuminare la navata, anche se quella bifora appare – diciamo – un po’ incongrua.
Quanto a noi, riteniamo che non ci sono soltanto gli edifici, e cioè soprattutto le chiese, le pievi e le cappelle, ma che l’unicum appena detto si estende anche all’intero paesaggio circostante, quello delle colline poste tra il Tanaro ed il Po.
Con la sua iniziativa, e con quella determinante dei molti volontari e volenterosi, presenti oggi qui a Santa Fede, la Regione promuove dunque quel riemergere del quale abbiamo detto; di codesta promozione si avverte un assoluto bisogno. Vorremmo che si potesse trattare di un impegno concretamente programmatico, benemerito e di lungo respiro, anche perché esso necessariamente si estende proprio al paesaggio collinare, al paesaggio agrario, che è proprio quell’unicum irripetibile. Il tessuto, o il mosaico, dei coltivi e dei boschi, non è infatti casuale, ma è di antichità secolare. Vaste dorsali e vallate, nelle quali si fondono i seminativi, le stoppie, le vigne, i prati ed alcuni lacerti boschivi naturaliformi, costituiscono la testimonianza di un lavoro assiduo di generazioni di coltivatori. Soltanto la gaggia, robinia pseudoacacia, ha ormai invaso interi versanti, per il desiderio dei possessori di quei boschi di ritrarre un modesto utile dalla gestione di quegli appezzamenti, dopoché altre essenze arboree, se non più pregiate, certamente più pregevoli, non trovano più sbocchi mercantili adeguati. Il problema dell’utilizzo economico dei nostri boschi, con i percorsi forestali che li attraversano è, del resto, storia non recente. Un secolo fa, un finanziere come Riccardo Gualino fondava le sue prime iniziative nel settore del legname, soprattutto di quello esotico, importato attraverso il porto di Genova, ed inoltre nell’abbattimento di immense foreste nei Carpazi.
Ai boschi delle colline piemontesi – e Gualino era di Biella – egli per fortuna non dedicò attenzione. Si limitò a costruire il castello di Cereseto, vicino a Casale.
Fino a qualche decennio fa, prima della motorizzazione, i modesti approvvigionamenti dei legnami locali erano destinati a soddisfare le necessità energetiche dei laboratori, dei panifici ed il riscaldamento delle case, soprattutto nelle città, Torino in primis. I trasporti erano di breve/medio raggio, eseguiti dai conducenti chiamati cartuné.
Essi, dal monferrato e dal torinese, percorrevano le strade di tutta la regione, fino alla Valle d’Aosta, con carichi sia di legna da ardere, sia anche di vino. Parallelamente, il mosaico che costituiva il paesaggio agrario delle nostre colline nasceva soprattutto da esigenze economiche, connesse alla piccola proprietà contadina, quella dei particolari, ed alla presenza dei rapporti di mezzadria, cioè una tipologia di contratti sempre più diffusa.
La mezzadria divenne una vera e propria esigenza, dopo che la prima accumulazione economica, risalente ai decenni ed ai secoli precedenti, consentì a parecchi agricoltori di trasferirsi nei centri urbani, in ragione delle più remunerative attività terziarie e manifatturiere. Sulle colline, le cascine, venivano lasciate all’assidua cura dei mezzadri, ma le moltissime aziende agricole non avevano e non potevano avere – anche per la breve durata dei contratti – significative innovazioni. Non altrettanto avveniva nel vercellese, in Lomellina, nella pianura cuneese, ove l’economia agraria era già tutt’altra cosa. Nell’intero Monferrato non si ebbero le ricomposizioni fondiarie, mentre lo smembramento degli antichi feudi, il regime successorio introdotto con il code civil napoleonico, il carico delle imposte, portarono a quel frazionamento dei suoli che – oggi – appare una componente ristoratrice degli occhi, per chi ammira il paesaggio, mentre nasconde secoli di arretratezza, se non culturale, almeno economica. Certo, per la sua struttura fondiaria, essenzialmente mezzadrile e di piccola proprietà, il Piemonte collinare non conobbe né le lotte bracciantili, né le rivolte contadine, se si eccettua la tragica vicenda della Repubblica Astese del 1797, sostanzialmente circoscritta al territorio urbano di Asti ed ai borghi circostanti.
Negli ultimi due secoli il distretto del nord-astigiano vide piuttosto la cristallizzazione del suo tessuto sociale (ed il prof. Dario Rei mi scuserà l’incursione nel suo terreno di studi); ciò anche in ragione del progressivo spopolamento delle nostre colline.
Proprio per un migliore approfondimento del contesto naturale di quelle epoche, la nostra Associazione ha inteso riproporre alcuni degli antichi percorsi, da ripetere a piedi, in bicicletta, magari a cavallo, a partire da alcuni dei monumenti più significativi del nostro territorio: si tratta, essenzialmente, di edifici religiosi di età romanica, costruiti in epoca nella quale i pittoreschi castelli, quelli che ancor oggi si collocano sul dosso più alto di in ogni paese, non esistevano. I castelli, infatti, sorsero più tardi, nel declinare del medioevo. Dunque, gli edifici più antichi sono quelli religiosi ed i percorsi dei quali abbiamo detto – speriamo di poterne aggiungere altri – traggono vita e ragion d’essere con la loro stessa frequentazione. Se intensamente praticati e frequentati, sia gli antichi edifici, sia gli stradelli, saranno meglio conservati e mantenuti. Nei percorsi che abbiamo tracciato, i dislivelli sono modesti; dalle incisioni vallive al vertice dei colli, anche le salite più lunghe richiedono meno di mezz’ora. Poi i falsopiani, cui seguono e le brevi discese. Nei limiti del possibile, abbiano percorsi ad anello, e dunque con partenza ed arrivo nello stesso luogo.
Sarebbe davvero interessante se alcuno dei volontari, coloro che in questi anni hanno meritoriamente consentito il presidio e la visita dei monumenti, divenissero “guide” per questi percorsi. Se saranno appena un po’ numerosi, potremo organizzare i necessari corsi di formazione.
Non occorre aver fretta: il romanico esiste da circa mille anni e noi fretta non ne abbiamo.

Avv. Emilio Lombardi